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A. Ferro definisce il setting un “contenitore capace di elasticità ed assorbenza” composto di aspetti formali (stanza, onorario, frequenza, orari, modalità di incontro) e di aspetti interni (assetto mentale dell’analista, identificazioni proiettive possibili, clima affettivo) che garantisce e tutela terapeuta e paziente consentendo loro di lavorare e di addentrarsi in relazioni ed emozioni profonde all’interno di uno spazio protetto e di riemergere dal lavoro terapeutico rientrando in un assetto mentale diverso.
L’autore pone in rilievo il duplice aspetto comunicativo che le microrotture del setting assumono: un attacco difensivo ed al tempo stesso una preziosa comunicazione rispetto alla relazione terapeutica, alla mancanza di sintonizzazione ed al fallimento empatico. In ogni caso esse rappresentano dei processi segnalatori di “reazioni terapeutiche negative” – situazioni in cui interpretazioni che si suppongono corrette in realtà peggiorano anziché migliorare lo stato del paziente – che vengono vissute dalla coppia analitica come intensamente pericolose.
Un approccio inteso a interpretarle esclusivamente come attacchi, di matrice classica o kleiniana, rischia di introdurre elementi di colpa e di accentuare ulteriormente la frattura tra terapeuta e paziente; occorre quindi non giudicare ciò che accade ma comprenderlo al fine di poter ripristinare il setting sulla base di una nuova consapevolezza e di un insight di coppia.
La lettura di Ferro delle microrotture è per certi versi simile a quella fornita dal modello relazionale e intersoggettivo (Mitchell): entrambi pongono l’accento sul valore simbolico e comunicativo che questi eventi veicolano mettendo in secondo piano la visione classica secondo cui ogni variazione di setting deve essere considerata esclusivamente come un attacco difensivo ed in quanto tale deve essere interpretato.
S. Mitchell propone un modello psicoanalitico apparentemente in aperta rottura con l’approccio analitico classico, perché fondato sull’interesoggetività a discapito della visione metapsicologica freudiana fortemente intrapsichica, e su quello che Atwood e Stolorow definiscono il “tramonto del mito della mente isolata”.
In questo nuovo assetto analitico tutto ciò che avviene nel setting (rotture incluse) assume una valenza relazionale ed in quanto tale segnala qualcosa sullo stato della relazione terapeutica e sui “principi organizzatori della vita psichica” del paziente e del terapeuta stesso. In altre parole è proprio attraverso le modificazioni di qualcosa che per definizione è costante che si rivela l’unicità e la specificità del paziente e della relazione: esiste un solo modo per essere costanti ma molti modi per essere diversi.
Mi sembra interessante porre in rilievo l’intersoggettività del setting che deriva da questa diversa definizione. In questo senso il ruolo del terapeuta assume un valore maggiormente attivo sia per quel che riguarda le rotture che egli stesso può inconsapevolmente o per cause “reali” introdurre, sia per quel che riguarda i livelli di tolleranza personali che consentono l’analizzabilità o meno delle rotture stesse.
Le microrotture, dunque, possono rappresentare dei momenti di impasse, momenti in cui emerge una disgiunzione intersoggettiva che può bloccare o favorire il progresso della terapia a seconda della capacità del terapeuta di diventare riflessivamente consapevole di cosa sta accadendo. Il terapeuta attraverso l’emergere di questi segnali di rottura viene posto di fronte all’occasione unica di far sperimentare al paziente hic et nunc un nuovo campo intersoggettivo che gli consenta di esprimere e di dare senso alle emozioni che in passato ha dovuto “sacrificare” per mantenere e proteggere le relazioni con le figure significative.
Il “bagno caldo” empatico di cui parlava Kohut che consente di sostenere ed esplorare “oggettivamente il vissuto soggettivo” del paziente ed una riflessione sui significati delle azioni compiute nel campo relazionale sembrano essere lo strumento da privilegiare per il ripristino di un setting pulito.
In questo senso le microrotture rappresentano la “via regia” per il cambiamento terapeutico una sorta di lente di ingrandimento sul transfert e sui processi relazionali in atto.