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Il falso sé trae origine dalla teoria di Winnicott, psicoanalista di seconda generazione e pediatra, tra i primi ad occuparsi di psicoanalisi infantile e del rapporto madre-bambino.
I concetti chiave della teoria di Winnicot sono essenzialmente tre: l’Holding, la Madre Sufficientemente buona e il Falso Sè. Dopo aver brevemente accennato ai primi due ci soffermeremo sul terzo.
L’Holding, che letteralmente significa “sostenere”, “tenere”, è una particolare funzione psichica materna che nei primissimi mesi di vita del figlio si attiva in maniera naturale, consentendole di sostenerlo, contenerlo fisicamente e psichicamente, permettendone l’emergere del sé.
Lo stato mentale in cui entra la madre già nei primi mesi di gravidanza viene definito preoccupazione materna primaria, una sorta di sospensione dell’esame di realtà, in cui la madre si sintonizza sui bisogni del piccolo, mettendo anche se stessa in secondo piano.
All’interno di tale stato mentale si attiva la funzione di Holding: una madre capace di questo viene definita sufficientemente buona. Sufficientemente, contrariamente a quanto intuitivamente si possa pensare, significa “perfettamente, realisticamente buona, competente”. La realtà infatti impone all’onnipotenza infantile la frustrazione: la madre reale non può non fallire talvolta nella sintonizzazione empatica con il figlio, generando in lui una frustrazione, che se limitata nel tempo, nella durata e nella frequenza, risulta tollerabile, consentendogli di costruire un Io solido capace di reggere l’urto della realtà, della frustrazione, della limitazione ai propri desideri.
Il concetto di Falso sè definisce invece una dimensione problematica, patologica e conflittuale nello sviluppo del sé del bambino, che si viene a creare nella dinamica relazionale con una madre che non fornisce l’Holding e non risponde in maniera sufficientemente buona ai bisogni.
Il termine ‘falso’, che non si traduce letteralmente in recitato e non autentico, esprime una distanza tra le aspirazioni, i desideri, le inclinazioni del sè e il comportamento dello stesso nel mondo e nelle relazioni. Il sé non agisce rispetto ai propri desideri e alle proprie aspirazioni, ma cercando di gratificare i desideri degli altri oggetti, al fine di essere approvato, apprezzato e non rifiutato.
Un esempio di interazione che genera il falso se è la seguente: immaginiamo un bambino che si trovi a sperimentare un’emozione negativa: tristezza, angoscia, preoccupazione, paura. Tale emozione lo porta naturalmente a cercare la persona che rappresenta il suo riferimento affettivo principale, la madre, per costruire un’interazione rassicurante, capace di sintonizzarsi con il suo mondo interno e di farlo uscire da quello stato psichico. Immaginiamo però che la madre sia assorbita dal proprio mondo interno, dalle proprie preoccupazioni, ad esempio una madre depressa o ancora alla ricerca di rispecchiamenti e approvazione, non rendendosi reperibile fisicamente o psichicamente, non sintonizzandosi con il bambino e con il suo bisogno emotivo. In tale situazione il bambino si trova a scegliere se rimanere solo con il proprio mondo interno angoscioso e spaventoso – molto spesso bambini che vivono questa esperienza ripetutamente durante la propria infanzia costruiscono un nucleo depressivo della personalità che li accompagnerà nella vita adulta – o continuare a sollecitare la madre per stabilire un’interazione, stavolta però sintonizzandosi lui con lo stato interno di lei, attraverso un’inversione di ruolo. Immaginiamo che la madre accolga positivamente l’iniziativa del bambino, sentendosi essa stessa sollevata dalle proprie paure e iniziando a interagire con lui: tale iniziativa ha consentito al bambino di uscire dalla solitudine, in qualche modo di cavarsela rispetto all’emozione negativa sperimentata entrando in una dinamica relazionale, ma ha lasciato completamente solo lo stato affettivo negativo, e ha creato un implicito schema che potrà guidare le future relazioni strutturando il falso sé: io ho un bisogno, l’altro non è disponibile, non c’è spazio per il mio vero sé, devo mettere da parte i miei desideri, i miei bisogni e sintonizzarmi con quelli degli altri che stavolta non sono rifiutanti, come un camaleonte che prende il colore dell’oggetto su cui si posa, divento una persona che tende a sintonizzarsi e a gratificare l’altro per essere accettata, mettendo da parte il mio sé autentico.
Tale modalità relazionale rischia di diventare uno schema implicito che orienterà tutti i rapporti, specialmente quelli intimi e affettivamente significativi, come i rapporti di coppia, rendendoli sbilanciati: esistono solo i bisogni e le emozioni di una delle due persone, aumentando il disagio e la frustrazione dell’altra. Il nostro bambino di prima, una volta cresciuto, tenderà quindi inconsciamente a costruire interazioni in cui gratifica l’altro, in cui si sintonizza sull’altro, scomparendo pian piano dal mondo relazionale. Tale dinamica, tuttavia, non si può definire come strettamente relazionale, poiché l’intento inconscio non è entrare in relazione con l’altro da sé, ma essere rispecchiati e accolti dall’altro, per soddisfare un bisogno narcisistico non relazionale. In alcuni casi, un rigurgito di sano narcisismo frustrato e bisognoso di rispecchiamento e di libera espressione lo porterà a separarsi e ad interrompere dolorosamente queste relazioni. Se però non diventerà consapevole di questo schema inconscio, sarà destinato a reiterarlo anche nelle nuove relazioni, alla disperata ricerca di se stesso nell’altro e non di se stesso insieme a un altro.
Come nell’aforisma di Jodorowsky occorre spezzare questa modalità camaleontica relazionale poggiandosi sul vuoto, cioè analizzando se stessi e consentendo al proprio modo di essere di emergere, al vero sé di esprimersi e di parlare, di sfidare la paura della solitudine e del rifiuto vissuta durante le prime interazioni con la madre.
La stanza di analisi può essere un’occasione di vuoto in questo senso, vuoto inteso come assenza di qualcuno che saturi la relazione con i propri bisogni. L’analista diventa una presenza non perturbante, la relazione terapeutica diventa una seconda occasione, un’esperienza emotiva correttiva, in cui lo schema implicito “devo farmi accettare dall’altro sintonizzandomi su di lui” può lasciare il posto alla libera e creativa espressione del proprio sé divenuto capace gi giocare insieme all’altro.